Le prostitute erano chiamate lupae, da cui il termine lupanar per identificare i bordelli. Nella città di Pompei ne sono stati individuati circa 25 di vari tipi. Vi erano edifici costruiti all'unico scopo della prostituzione, come quello rinvenuto nella Regio VII, composto di 10 piccoli ambienti con letti in muratura che venivano ricoperti da materassi. Cinque erano al piano terra, e cinque al piano superiore al quale si accedeva tramite una stretta scaletta di legno. Lungo il corridoio del piano inferiore sono state rinvenute alcune decorazioni murali erotiche, forse una sorta di catalogo che indicava le prestazioni possibili in quel luogo, oppure, più verosimilmente si trattava di immagini tratte da uno schemato veneris, uno dei manuali illustrati dell'ars amatoria scritti nel III-IV secolo a.C. dalle poetesse di Samo Philainis ed Elephantis.
In questo stesso bordello sono stati ritrovati numerosi graffiti ricchi di commenti e nomi che hanno reso possibile l'identificazione di almeno 80 prostitute e clienti. Erano indicate anche le preferenze, o in taluni casi le malattie da contagio diffuse. Si utilizzavano anche metodi antifecondativi, come spalmature di oli abbinate all'introduzione di lana imbevuta di succo di limone.
I lupanari potevano trovarsi, inoltre, ai piani superiori di edifici commerciali come le cupone o le terme, ed in alcuni casi erano costituiti da singole stanze lungo le strade o all'interno delle abitazioni private.
Nell'antica Roma la prostituzione era comunemente accettata. Anche Catone il Censore, l'austero per antonomasia, secondo Orazio (Satire), vedendo un giovane uscire da un lupanare lo lodò perché aveva sfogato la propria "increscevole libidine" con una prostituta senza godersi la moglie altrui. La clientela era per lo più di bassa estrazione sociale, plebei, mercanti e marinai stranieri di passaggio. Le prostitute erano tutte schiave, ed i loro guadagni venivano interamente incassati dal proprietario detto Lenone. Il prezzo medio era di 2 assi, il costo di una bevuta di vino.